La diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, ed in particolare di quelli telematici, ha posto ancor più il problema della individuazione dei limiti di legalità delle varie forme di comunicazione. La comunicazione globale, infatti, ha generato problemi enormi e spesso insuperabili dovuti alla rapidità con cui circolano le informazioni, all’impossibilità di controllarne spesso provenienza e autorevolezza e all’eventualità che quelle informazioni si riproducano all’infinito rendendo di fatto impossibile la totale eliminazione di quelle errate e diffamatorie.
A norma dell’Art. 595 c.p. commette il reato di diffamazione “chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione” e, alla stregua del comma 3 del medesimo articolo, “se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni”; dunque, la giurisprudenza della Corte di Cassazione non ha mai dubitato che il riferimento a “qualsiasi altro mezzo di pubblicità” di cui all’articolo 595 c.p., comma 3, consenta di ritenere aggravata anche la diffamazione consumata sul web e sui social media.
In buona sostanza, i presupposti della diffamazione sono:
- assenza dell’offeso: l’impossibilità per chi subisce la diffamazione di difendersi dall’offesa;
- offesa dell’altrui reputazione: una lesione delle qualità personali, morali, sociali, professionali, di un individuo, da valutare in base al contesto in cui le espressioni sono utilizzate, con particolare attenzione alle ipotesi di comunicazione via web che hanno una potenzialità ed una immediatezza di diffusione, ma soprattutto un maggior numero di potenziali destinatari;
- comunicazione con più persone: occorre che l’agente renda partecipi dell’offesa almeno due persone, le quali siano state in grado di percepire l’offesa e di comprenderne il significato.
Come cambia la diffamazione sui vari canali digitali
Occorre, però, secondo una recente giurisprudenza, giungere a soluzioni diverse a seconda del luogo virtuale in cui è pubblicato il messaggio offensivo, pertanto:
- tramite posta elettronica, e più in generale per le comunicazioni inviate tramite un canale diretto a destinatari singoli e ben individuati (es. Whatsapp o messaggi privati su Messenger, Telegram e altri sistemi di messaggistica), non si tratta del reato di diffamazione ma di ingiuria, che si consuma con la percezione del messaggio da parte del destinatario, percezione della quale occorre fornire la prova;
- tramite mailing list o forum, ovvero di piattaforme di discussione su specifici argomenti a cui possono accedere gli iscritti (o anche i visitatori esterni), per la configurazione del tentativo di diffamazione è sufficiente la pubblicazione di un messaggio denigratorio sul Forum o l’invio ad una mailing list, mentre occorrerà la prova dell’effettiva lettura dei messaggi da parte degli iscritti e visitatori, o quantomeno di alcuni di loro, per l’individuazione del reato consumato;
- tramite chat di gruppo, una recentissima sentenza della Suprema Corte (Cassazione, sentenza n. 10905/20, sez. V Penale, depositata il 31 marzo 2020) ha ritenuto non punibile per diffamazione l’offesa rivolta ad una persona all’interno di una chat di gruppo, trattandosi piuttosto, proprio per la presenza del soggetto offeso, di una ipotesi di ingiuria – aggravata dalla presenza di più persone – oggi, comunque, depenalizzato;
- tramite siti web destinati alla fruizione e lettura da parte degli utenti (come nel caso di blog e giornali online), dove il momento consumativo della diffamazione retroagisce, invece, all’atto dell’immissione del contenuto in Rete (tranne nei casi in cui è possibile fornire prova della mancata o ritardata percezione dello stesso). D’altronde, oggi quasi tutti i siti web prevedono sistemi in grado di accertare il numero di visitatori del sito, anche in tempo reale.
Più severo, invece, è il discorso per quanto riguarda i mezzi di comunicazione di massa tradizionali, come stampa e radiotelevisione, in relazione ai quali è ormai consolidato un orientamento interpretativo particolarmente rigido, che fa coincidere la consumazione del reato con la mera pubblicazione o trasmissione dei contenuti diffamatori anche in assenza di un’effettiva percezione dell’offesa.
In merito alle cause di giustificazione del reato di diffamazione via web, valgono le regole generali previste per quella a mezzo stampa: pertanto, particolare attenzione va riservata all’esercizio del diritto di cronaca, di critica e di satira e ai parametri della verità della notizia, della continenza espositiva (la correttezza con cui i fatti vengono esposti con rispetto dei requisiti minimi di forma) e della pertinenza della notizia (vale a dire l’interesse pubblico alla conoscenza dei fatti).
Diffamazione sui social network e responsabilità dei soggetti coinvolti
I social network sono oggi lo strumento di comunicazione per eccellenza e le statistiche giuridiche mostrano come la diffamazione sia diventata – soprattutto su Facebook – un reato ricorrente. Tante persone ricorrono ai social network per esporre i propri pensieri contraddittori o gli insulti nei confronti di qualcuno: le questioni religiose e di politica costituiscono il campo nel quale l’espressione del proprio pensiero molto spesso supera i limiti del rispetto di quello altrui, ma anche la pubblicazione di foto di amici in atteggiamenti imbarazzanti o qualche battuta in più costituiscono reato.
Data la peculiarità delle modalità di acquisizione e circolazione dei contenuti illeciti su un sito web, si è posta la questione della responsabilità dei soggetti coinvolti nella gestione di tali spazi. Più in dettaglio, ci si è chiesti se, alla luce dei principi del nostro ordinamento, sia possibile imputare la responsabilità di un illecito commesso su Internet oltre che all’effettivo autore dello stesso, ovvero al content provider, in qualità di soggetto che fornisce i contenuti pubblicati sul sito web, anche all’host provider, ossia al soggetto che consente al content provider di pubblicare su internet il contenuto diffamatorio, all’interno delle pagine della propria piattaforma web (ad esempio, il titolare di un social network) o mettendo a disposizione uno spazio web all’interno del proprio server per creare le pagine web su cui avviene la diffamazione (ad esempio, il fornitore di un servizio di hosting).
È evidente, che, nell’ipotesi di diffamazione a mezzo Internet, il content provider può essere chiamato a rispondere dell’illecito, tanto in sede civile quanto in sede penale, per fatto proprio. Per quanto concerne invece la posizione dell’host provider, si osserva che non può essere ravvisata la possibilità effettiva e concreta di esercitare un pieno ed efficace controllo sulla massa dei dati caricati da terzi, visto l’enorme afflusso. È necessario, infatti, attirare l’attenzione del provider su uno specifico oggetto in base alla segnalazione mirata proveniente dall’interessato o da altri utenti del web: solo dopo quel momento è dimostrata la consapevolezza del provider che, se non rimuove il contenuto offensivo e continua a renderlo fruibile, aggravando ulteriormente la lesione al bene giuridico tutelato, risponde di lì in poi a titolo di concorso nel reato.
Come dimostrare l’avvenuta diffamazione
Le stampe e gli screenshot dei messaggi diffamatori sono stati ritenuti dalla Suprema Corte documenti di valore probatorio (sarà poi il giudice a valutarne liberamente l’attendibilità). È consigliabile tuttavia, in ogni caso, affidare un incarico di perizia informatica a un consulente tecnico esperto in informatica forense, che sia in grado di eseguire una copia autenticata di un profilo o di una pagina su Facebook o un altro social network contenente i messaggi diffamatori. Il motivo è che la perizia per diffamazione deve essere eseguita seguendo metodi scientifici ormai consolidati e, inoltre, il perito informatico potrà eventualmente essere chiamato a testimoniare in Tribunale in qualità di testimone o Consulente Tecnico di Parte. Infatti, è sempre preferibile che a presenziare in Tribunale, come consulente tecnico forense o testimone, sia un terzo che abbia competenze e svolga perizie informatiche di professione.
Mezzi di tutela
La diffamazione via web è perseguibile a querela di parte entro 90 giorni dalla divulgazione della notizia o, comunque, dall’avvenuta conoscenza. Inoltre, è possibile per il soggetto danneggiato richiedere la rettifica sul sito che ha diffuso la notizia, quale modalità anche parzialmente riparatrice, in aggiunta al risarcimento del danno. La rettifica, tuttavia, potrà essere effettuata anche direttamente dal danneggiato in un sito su cui abbia la possibilità di diffondere notizie, come ad esempio un social network. Soprattutto nel caso in cui il sito in cui è avvenuta la diffamazione abbia una diffusione significativa, costituita da un rilevante numero di accessi, la rettifica potrà essere richiesta sia al titolare del sito che al provider, dovendo essere riportata sui siti in cui è stata diffusa.
È altresì legittimo, nel rispetto del principio di proporzionalità, il sequestro preventivo di un sito web o di una pagina telematica (ad esempio un profilo social o un gruppo Facebook) per mezzo dei quali è stata commessa diffamazione, qualora ricorra il “fumus commissi delicti” ed il “periculum in mora”: il sequestro avviene tramite l’imposizione al fornitore dei servizi Internet, anche in via d’urgenza, dell’oscuramento di una risorsa elettronica o l’impedimento dell’accesso agli utenti ai sensi degli artt. 14, 15 e 16 D.Lgs. n. 70/2003.
Avv. Mario Polizzy
Patrocinante in Cassazione e innanzi alle Magistrature Superiori
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