Se il linguaggio riflette la realtà sociale e contribuisce a modellarla, ciò che non si nomina rischia di essere escluso o invisibilizzato. È quanto accaduto alla comunità LGBTQIA+, a lungo marginalizzata dalle narrazioni dei media. Solo negli ultimi decenni infatti, si è assistito a un processo di progressivo racconto. Questo, come vedremo, è iniziato con l’adozione di codici non decifrabili dal pubblico mainstream fino ad arrivare alle attuali rappresentazioni più autentiche, consapevoli e inclusive. Oggi la comunicazione LGBTQIA+ non è più un tema di nicchia o una semplice questione di sensibilità ma un indicatore di maturità culturale delle aziende. E chi si occupa di comunicazione è chiamato a confrontarsi con una nuova responsabilità: rivedere il proprio linguaggio e costruire messaggi più equi.
Chi fa parte della comunità LGBTQIA+
L’acronimo LGBTQIA+ racchiude una molteplicità di esperienze e soggettività: lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer o questioning, intersex, asessuali e numerose altre identità non conformi agli standard cis-eteronormativi (indicate con il simbolo +). Questa sigla indica un insieme di individui con esperienze, bisogni e vissuti spesso divergenti. A questa complessità si aggiunge la dimensione intersezionale che intreccia genere, etnia, classe, disabilità e orientamento religioso in esperienze uniche e spesso marginalizzate. Ignorare queste variabili significa produrre rappresentazioni parziali o escludenti anche se mossi da buone intenzioni.
Come vedremo, per chi si occupa di comunicazione, questo implica un cambio di prospettiva. All’individuazione del target va accompagnato un dialogo aperto con esso che dia la possibilità di comprenderne il punto di vista. Alla visibilità simbolica va accompagnata una partecipazione attiva. Aprirsi a processi di ascolto e responsabilità narrativa significa, prima di tutto, abbandonare i modelli standardizzati del passato.
Dai codici nascosti del passato alla comunicazione inclusiva
La strada verso un linguaggio autenticamente inclusivo è stata lunga e spesso ostacolata da resistenze culturali e politiche. Per decenni, la presenza della comunità LGBTQIA+ è stata veicolata attraverso codici impliciti, omissioni e stereotipi. Ecco una breve panoramica dei passaggi chiave.
Inizi del ‘900, la nascita del queer coding
A causa della forte repressione sociale e della censura, all’inizio del 1900 non esistevano pubblicità con tematiche o rappresentazioni esplicite apertamente gay. Non è un caso che negli anni ‘30, in seguito alla pubblicazione del codice Hays che proibiva la rappresentazione diretta dell’omosessualità al cinema, si siano creati i presupposti per la nascita del queer coding. Si tratta di una tecnica narrativa che consiste nell’attribuire a un personaggio caratteristiche fisiche, comportamentali e simboliche che suggeriscono un orientamento non eterosessuale senza mai dichiararlo esplicitamente. Ancora oggi viene utilizzata per rappresentare indirettamente degli appartenenti alla comunità LGBTQIA+. A volte però può rafforzare stereotipi dannosi. È il caso di numerosi personaggi antagonisti – anche di epoca più recente – che vengono considerati esempi di queer coding negativo. Tra i più noti troviamo Scar, Jafar e Ursula della Disney, Raoul Silva in Skyfall e Norman Bates in Psycho, Jareth in Labyrinth, Buffalo Bill ne Il silenzio degli innocenti, Xerxes in 300 e il Joker.
Anni ‘80 e ‘90, da Absolute Vodka a Benetton
All’inizio degli anni ‘80, alcuni brand di alcolici e di tabacco iniziarono a veicolare messaggi inclusivi usando codici recepiti solo da chi poteva comprenderne i significati. Si trattava di campagne audaci per l’epoca, spesso ospitate solo su testate di nicchia (in USA: L.A. Advocate e After Dark). Con la diffusione dell’AIDS alcuni inserzionisti si ritirarono. Ma non Absolute Vodka, che nel 1986 ruppe gli schemi con una campagna realizzata con l’artista e attivista gay Keith Haring, riscuotendo un grande successo. Se per il grande pubblico la pubblicità metteva in risalto l’opera di un artista underground, per la comunità gay si trattò di una dichiarazione di sostegno da parte del brand.
Alla fine del decennio, fu Benetton a rompere definitivamente il ghiaccio con United Colors of Benetton. La campagna, molto audace per l’epoca, rappresentava per la prima volta una coppia lesbica in una pubblicità mainstream. Il brand di abbigliamento continuò a esplorare territori controversi, con immagini che includevano gli anelli olimpici ricreati con i preservativi e gli ultimi istanti dell’attivista David Kirby circondato dalla sua famiglia, mentre moriva di AIDS.
Anni ‘90 e il caso di gay vague marketing Subaru
Il caso Subaru segnò un passaggio fondamentale nella comunicazione LGBTQIA+. In seguito a un calo di vendite, l’azienda automobilistica individuò alcuni target di nicchia e si soffermò su un dato interessante: molte clienti erano donne non sposate, che apprezzavano il fatto che le auto del brand fossero leggere, adatte alle gite e con dimensioni contenute.
Decidendo di investire su questo target, Subaru individuò alcune riviste di settore e inserì negli spot dei messaggi cifrati che risultavano palesi per i membri della comunità LGBTQIA+ e neutrali per le persone eterosessuali. Alcuni esempi degli slogan? “Get out. And stay out”, “It’s not a choice. It’s the way we are built”, “Different drivers. Different roads. One car”. Una campagna mostrava auto Subaru con targhe “Xena LVR” in riferimento a Xena la Principessa Guerriera o “P-TOWN”, un soprannome per Provincetown, popolare meta turistica gay del Massachusetts.
Subaru riuscì a fidelizzare le persone della comunità LGBTQIA+ senza inimicarsi i clienti eterosessuali (che spesso non si accorgevano nemmeno dei messaggi nascosti) e tra il ‘93 e il 2004 raddoppiò le vendite. Subaru – soprannominata per questo Lesbaru – ha effettivamente iniziato a sostenere la comunità sponsorizzando i Pride e collaborando con la carta di credito Rainbow Card che offre donazioni a cause LGBTQIA+. Inoltre, ha ingaggiato come testimonial Martina Navratilova, ex tennista lesbica.
Quello di Subaru è un esempio di gay vague marketing, nel quale si utilizzano rappresentazioni sottili e ambigue di relazioni omosessuali o temi LGBTQIA+ che attraggono i consumatori gay senza escludere il pubblico eterosessuale. Negli anni ‘90, pubblicità di questo tipo, anche note anche come “gay window”, hanno spianato la strada a pubblicità più inclusive come il primo spot TV nazionale con una coppia gay: quello di IKEA del 1994.
Dal 2000 al 2015, i primi spot davvero inclusivi
Dai primi anni 2000 in poi si è assistito a un ampliamento della rappresentazione della comunità LGBTQIA+, sebbene spesso limitata a modelli omonormativi, bianchi e di classe medio-alta. La vera svolta si è verificata dopo il 2015 con l’affermazione del matrimonio egualitario in molti Paesi e la crescente visibilità di persone transgender, non binarie e queer di colore nelle campagne pubblicitarie di brand globali. Alcuni esempi? Uno spot della Nike che ha come testimonial l’atleta transgender Chris Moser, uno spot di Gilette che racconta di un ragazzo transgender di colore che impara a radersi grazie agli insegnamenti del padre e lo spot di Coca-Cola per il Superbowl del 2018 che include pronomi non binari.
L’inclusività diventa così un fenomeno più diffuso: vengono trattati apertamente temi legati alla comunità e la comunicazione LGBTQIA+ viene adottata da numerosi brand. Allo stesso tempo emergono critiche alle aziende che fanno rainbow washing, cioè utilizzano l’iconografia e i messaggi LGBTQ+ a fini puramente commerciali senza mettere in campo azioni concrete. Alcune aziende scelgono di dismettere iniziative puramente simboliche per concentrarsi su problematiche interne la formazione del personale, la partecipazione a progetti sociali o la modifica delle linee editoriali per garantire rappresentazioni corrette e variegate.
Oggi, tra difesa e svalutazione dei temi LGBTQIA+
Negli ultimi due anni la comunicazione LGBTQIA+ ha subito da un lato un’accelerazione significativa, segnata da passi in avanti anche istituzionali e da un’evoluzione delle aspettative sociali. Dall’altro, una involuzione dovuta a tensioni crescenti nel contesto politico ed economico.
A ottobre 2025, la European Commission ha adottato la nuova LGBTIQ+ Equality Strategy 2026‑2030 con l’obiettivo di proteggere le persone LGBTQIA+ da pratiche dannose e reati d’odio e integrare la parità in tutti i settori di policy dell’UE. Prevede misure concrete come il rafforzamento delle tutele contro le aggressioni anche online, il sostegno alle associazioni civili, la protezione delle famiglie rainbow e l’inclusione sul lavoro. Questo contesto normativo e istituzionale rafforza il valore della comunicazione inclusiva.
Parallelamente, il recente clima politico americano caratterizzato da un aumento delle narrative anti-diritti o anti-DEI ha reso la condivisione di tematiche relative alla comunicazione LGBTQIA+ più delicate. Secondo recenti analisi, molte aziende e advertiser statunitensi hanno ridotto o cancellato le campagne legate al Pride 2025 per timore di reazioni negative, controversie o cali nelle vendite.
A questo si aggiunge la crescente consapevolezza del pubblico. Chi appartiene alla comunità LGBTQIA+ così come chi la sostiene può facilmente identificare campagne stagionali di rainbow washing, boicottando i brand che ne sono protagonisti. Secondo un recente studio condotto da Nielsen:
– il 68% dei consumatori LGBTQIA+ riferisce di aver incontrato pubblicità irrilevanti;
– il 72% della comunità LGBTQIA+ concorda sul fatto che smetterà di acquistare da marchi che svalutano la loro comunità;
– il 65% dei consumatori LGBTQIA+ si aspetta che un brand dimostri impegno verso la comunità per tutto l’anno, non solo a giugno.
Questo scenario impone una riflessione accurata. Per i brand e le istituzioni la comunicazione inclusiva deve essere coerente, continua e strutturata e non una parentesi stagionale o un atto simbolico.
La comunicazione LGBTQIA+ oggi
Per comunicare alla comunità LGBTQIA+ in modo efficace e rispettoso non basta evitare un linguaggio offensivo o cliché e stereotipi obsoleti. Per essere inclusivi, si può iniziare da alcuni passaggi fondamentali. E ricordare che l’obiettivo di una comunicazione LGBTQIA+ attenta non è solo evitare errori ma anche promuovere un cambiamento culturale attraverso la comunicazione.
Per prima cosa, bisogna conoscere profondamente i destinatari della comunicazione, i loro valori, le esperienze, le aspettative. Senza questa consapevolezza, ogni messaggio rischia di risultare vuoto o paternalistico e di condividere una narrativa non aderente alla realtà.
Le persone LGBTQIA+ devono essere rappresentate nella loro pluralità con realismo, complessità e rispetto. Questo richiede la presenza di team diversificati nei processi creativi e decisionali.
Una comunicazione inclusiva perde credibilità se non è accompagnata da azioni concrete. L’uso di simboli o claim inclusivi senza un impegno reale verso diversità, equità e rappresentanza rischia di essere percepito come opportunistico, o addirittura peggiorativo. È fondamentale che i messaggi riflettano un comportamento davvero inclusivo: rispetto delle differenze, sostegno alla comunità.
Adottare un linguaggio inclusivo
L’adozione di un linguaggio inclusivo – che va oltre l’ambito della comunicazione LGBTQIA+ – serve a non escludere nessuno e a rappresentare fedelmente la realtà delle persone. Si basa sull’uso di parole, espressioni e rappresentazioni non discriminatorie, eque, rispettose, capaci di riconoscere e valorizzare tutte le identità. Ecco alcune buone pratiche.
– Evitare il maschile sovraesteso: ad esempio, “i cittadini” può diventare “le persone” oppure “i/le cittadini/e”;
– adottare formulazioni neutre o collettive: “personale docente” invece di “professori”; “ruolo di coordinamento” invece di “coordinatore”;
– usare correttamente l’asterisco (*), la schwa (ə) o le soluzioni inclusive a seconda del contesto tenendo conto di accessibilità, chiarezza e leggibilità;
– scegliere termini precisi e aggiornati: gay, lesbica, bisessuale, persona transgender, persona non binaria e così via;
– selezionare immagini che non banalizzino né stereotipizzino la comunità LGBTQIA+;
– rispettare i pronomi e nomi scelti dalle persone.
Queste buone norme possono essere facilmente adottate anche in diversi touchpoint del funnel. È preferibile, per esempio, usare termini neutri nelle newsletter e nei Direct Message (“Ti diamo il benvenuto” può sostituire i classici “benvenuto” e “benvenuta”). Nei form di conversione, aggiungere più opzioni oltre a quelle binarie come, ad esempio, “autodescritto” oppure “preferisco non rispondere” per dare anche la possibilità di non identificarsi affatto.
Governance, policy organizzative e visione di lungo termine
Come abbiamo visto, linguaggio e comunicazione non devono restare elementi isolati né estetici: per essere efficaci e credibili devono riflettersi nelle politiche interne, nelle procedure, nella cultura aziendale o istituzionale. Questo comporta formazione del personale, revisione di documentazione e materiali, creazione di linee guida editoriali, sensibilizzazione continua. In questo modo, l’inclusività diventa parte strutturale del modo di operare e non un’azione occasionale o simbolica.
Il linguaggio, come la società, evolve. E le definizioni, le sensibilità, le identità sono in continuo cambiamento. Di conseguenza, le strategie comunicative devono essere periodicamente riviste, aggiornate e aperte al feedback e al dialogo. Le migliori pratiche prevedono una revisione costante dei contenuti, l’ascolto delle comunità rappresentate, l’adozione di strumenti di audit e di misurazione dell’impatto comunicativo. Solo così la comunicazione rimane pertinente, autentica e rispettosa nel tempo.
Comunicazione LGBTQIA+, un cambio di prospettiva
In definitiva, comunicare in modo inclusivo verso la comunità LGBTQIA+ oggi non significa solo correggere i termini o aggiornare le immagini. Significa ripensare il proprio ruolo sociale come attori pubblici e privati, consapevoli dell’impatto che ogni parola, ogni scelta visiva, ogni campagna può generare. In un’epoca in cui le persone chiedono coerenza, autenticità e ascolto, una comunicazione davvero inclusiva può aiutare a costruire fiducia, rafforzare relazioni e incoraggiare il cambiamento.