Forse per la prima volta in modo massiccio, la campagna elettorale per le elezioni politiche del 2022 si è svolta anche sui social media. Tutti i principali partiti politici hanno impostato una strategia per affrontare il percorso verso il voto. In quasi la totalità dei casi, si è optato per la promozione del leader carismatico, con l’obiettivo di trovare un bacino di voti nella sua notorietà. Soltanto il Partito Democratico ha scelto una presenza corale, che è forse l’ottavo errore che non abbiamo aggiunto a questa analisi. I social media, infatti, prediligono principalmente le persone, a meno che il brand non abbia un’identità talmente conclamata da poter essere al centro di attività di comunicazione. Un ruolo difficile per i partiti, soprattutto data la storia italiana. Al di là di questa scelta opinabile del Pd, ci sono stati una serie di errori, dalle inesattezze alle cantonate, più o meno trasversali.
Gli errori della campagna elettorale sui social media
1. Logica dell’emergenza
Uno dei principali problemi della comunicazione politica è l’andamento ondivago. Il messaggio verso il basso dovrebbe attraversare in maniera armonica alcune fasi. Principalmente, stiamo parlando della fase istituzionale e di quella elettorale. In condizioni di stabilità, il raccordo comunicativo con la base degli elettori è fondato sull’informazione: partiti, ministri e singoli parlamentari dovrebbero mantenere costante il dialogo con i cittadini, spiegando scelte e operato. In fase elettorale, questa comunicazione dovrebbe essere concentrata sul messaggio programmatico, per spiegare la via verso il futuro proposto. Ad oggi, invece, il moto ondivago della comunicazione politica, soprattutto sui social media, è di tipo stop-and-go. Mancano continuità ed evoluzione, al punto che non pochi candidati si sono trovati a partire da zero. In poco più di un mese è impossibile elaborare una strategia efficace e il risultato di questa logica dell’emergenza si è visto a tratti in modo eclatante.
2. Poca conoscenza delle piattaforme
Piattaforma che vai, dinamiche che trovi. Sembra un abc, eppure non sempre si è rivelata una regola tanto semplice da essere automatica. Se tutti i principali leader politici appaiono abbastanza in confidenza con Twitter o Facebook, non lo sono altrettanto con piattaforme come Instagram e TikTok. In quest’ultimo caso, ha contribuito all’insuccesso la logica dell’emergenza di cui sopra. Nel corso del mese di agosto, pressoché tutti – con l’eccezione di Salvini, Meloni e Conte – si sono affacciati per la prima volta sulla piattaforma di ByteDance. Ma in generale, i leader hanno trasversalmente commesso spesso lo stesso errore: non diversificare i contenuti per le piattaforme. E così, è stata una sequela di Reel di TikTok condivisi su Instagram, screenshot di Twitter su Facebook, pubblicazione automatica di post Instagram su Facebook. Un errore sia dal punto di vista dei target, sia dal punto di vista dei formati delle singole piattaforme.
3. Incoerenza nello stile
Quando Enrico Letta ha dato avvio alla campagna social del Pd più di qualcuno è rimasto disorientato. La reazione complessiva, archiviato un primo momento di confusione, è stata una presa in giro di proporzioni virali. La strategia del partito verteva sulla polarizzazione: di là la destra, con le sue proposte, qui la sinistra con le proprie. Messaggio esplicito: “scegli”. La campagna, già da un punto di vista grafico, si presentava come perfetta per la produzione di meme. Così è stato. In poco tempo, sono diventati famosi il contenitore e la logica del messaggio, non il messaggio stesso. Una strategia probabilmente sbagliata in origine, ma resa ulteriormente dannosa per via della drastica rottura con lo stile precedente. Letta aveva sempre mantenuto una comunicazione sobria, a tratti asettica e comunque molto istituzionale. Quella promossa con la campagna risultava in contrasto e non ha attecchito presso un pubblico abituato a ben altro.
4. Assenza di temi
Se questa è stata effettivamente la prima campagna elettorale sui social media per presenza e continuità, lo è stata molto meno per la promozione di messaggi di sostanza. Tendenzialmente, i leader dei principali partiti politici hanno scelto le piattaforme social per un posizionamento che potesse risultare intuitivo agli occhi degli utenti. Una presa di posizione costante, ma rapida e quasi mai argomentata, sui vari argomenti. Anche questa dinamica è in parte dipendente dall’urgenza: non aver costruito una comunicazione programmatica nel tempo ha costretto molti politici a tracciare una linea e mostrare da che parte si sarebbero posti: contro o a favore. Una strategia portata all’apice da Carlo Calenda che, particolarmente attivo su Twitter, ha impersonato una comunicazione rissosa, molto orientata alla contrapposizione, anche verbale, nello scambio di battute condite di sarcasmo. È così che si è mancata l’occasione di raggiungere molti cittadini e informarli compiutamente in vista del voto.
5. Linguaggio
Da un punto di vista del linguaggio, forse il caso più rappresentativo è quello di Silvio Berlusconi su TikTok. Ha provato a cavalcare il mood della piattaforma basata sull’intrattenimento, ma si è rivolto ai giovani utenti con un tono a dir poco paternalistico. Le critiche sono state perentorie: “perché parla ai ragazzi come se fossero scemi?”, si è letto spesso su Twitter. Qui, la scarsa conoscenza delle piattaforme e l’economia sui contenuti hanno contribuito a diffuse discrasie. Parliamo di formati sbagliati, post fuori target e scelte stilistiche non proprio azzeccate. In qualche caso, questa tendenza ha portato a veri e propri epic fail, ma di questi parleremo tra poco. Ci resta da notare che molti leader hanno ceduto alla logica polarizzante dei social media, adottando linguaggi talvolta anche molto aggressivi o producendo post divisivi (o comici) per aumentare l’engagement. Non è un errore, gli algoritmi funzionano così. Ma se si aspira a governare il Paese bisognerebbe sempre tenere in considerazione che c’è una credibilità da conservare.
6. Equilibrio
Restando in tema di credibilità ed efficacia, segue la necessità di equilibro. In questa campagna elettorale sui social media abbiamo assistito, ad esempio, al tweet smodato di Calenda e alla comunicazione rigida di Letta. Due casi esemplari dell’assenza di equilibrio nella strategia che dovrebbe sempre avere in grembo una linea di contenuti pensati e realizzati a tavolino e un’altra più spontanea, nata sull’onda dei trend o tesa alla rivelazione della personalità del protagonista. A Calenda è mancato qualcuno che ogni tanto gli togliesse lo smartphone di mano, impedendogli di mitragliare repliche. A Letta è mancato qualcuno che lo incitasse a esporre un po’ di sé, con uno stile che inequivocabilmente riportasse a lui e non al partito. Ma anche superare i limiti del ruolo è stata una mancanza di equilibrio: le dirette fiume di Salvini su TikTok, o l’ironia esasperata di Berlusconi sono stati recepiti dagli utenti come fuori luogo.
7. Epic fail
Non serve un occhio allenato e tecnico per rilevarli. In questo caso, il radar naturale per le gaffe social sono gli utenti stessi. È da qui che nascono meme, gif e una serie pressoché infinita di riprese ridanciane. In qualche caso, sono scivoloni che rientrano in tempi accettabili (se adeguatamente trattati in regime di crisis management). In altri equivalgono a danni d’immagine perpetui. Il video di TikTok in cui Berlusconi chiede il voto alle elettrici perché è andato tutta la vita a caccia del loro amore o dove dichiara che un suo post ha ottenuto un successo mai visto dalla piattaforma sono stati boomerang totali. E se sono numerose le immagini in cui un po’ tutti sono inciampati, completamente incoerenti rispetto a posizionamento e obiettivo della comunicazione, va a Luigi di Maio lo scettro degli Epic fail. Il suo volo, issato dai camerieri di una pizzeria sulle note di Dirty Dancing, resterà per sempre negli annali del web. E per il ministro degli Esteri uscente sarà molto difficile, se non impossibile, smarcarsene.