Cinquantamila nuovi artisti iscritti alla piattaforma nel mese di marzo 2020, una crescita di sostenitori paganti del 36% da un mese all’altro guardando ai mercati di Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Germania, Australia ed – ebbene sì – Italia. Sono le performance di Patreon, piattaforma di mecenatismo digitale tematica (simile al crowdfunding, con verticali su creatività e cultura) già famosa nel mondo, durante la fase acuta del Covid-19, quella in cui tutti gli ambiti, e non ultimo il settore culturale, iniziavano a scontare sulla propria pelle il collasso delle forme di sostentamento finanziario, strettamente legate, nella maggior parte dei casi, al contatto e alla presenza.
Patreon ha continuato a crescere, e oggi supera i 4 milioni di “patrons” disposti a spendere soldi (più preciso e accurato di “donare”) a favore di ciò che a loro piace e interessa.
Stiamo parlando di una piattaforma che tecnicamente rientra in senso ampio tra quelle di crowdfunding (ossia una raccolta fondi online a sostegno di cause e/o progetti), ma che si basa sul meccanismo della subscription periodica, una sorta di “abbonamento” tramite cui i sostenitori conferiscono mensilmente denaro per contribuire allo sviluppo della produzione di artisti o creativi, potendo naturalmente interrompere il finanziamento in ogni momento. Quella della “membership platform” (tale si definisce Patreon) rappresenta una delle molte formule alternative a quella della pubblicità per la sostenibilità delle attività culturali, e pare giunta a un punto importante di definizione e di pratica.
Crescita di donatori iscritti su Patreon.com per provenienza a marzo 2020
Il valore (rivelatore) del crowdfunding
Piccolo inciso: potrebbe sembrare uno dei classici esercizi di professione di entusiasmo incondizionato per il crowdfunding, forma e formula troppo spesso evocata come panacea finanziaria per qualsiasi bisogno, esigenza o pulsione, creativa e non, che abbisogni di un sostegno economico per potersi realizzare (o sopravvivere). Ebbene, non vuole essere così, e lo sostengo con l’energia di un operatore del settore che vede troppo spesso una pratica promettente e generativa ridotta ad espediente narrativo di comodo per dare un qualche corpo alla prospettiva plausibile di salvataggi miracolosi, che possano dare ossigeno a produzioni e sensibilità finora maltrattate dalla grettezza del pubblico.
Il crowdfunding – in particolar modo quando si parla di cultura e creatività – è l’approdo finale di un percorso estremamente lungo e articolato, strutturato in modo consapevole e cadenzato, per cui chi ha conquistato, accresciuto e consolidato un pubblico realmente interessato, passa alla monetizzazione diretta di una propria attività, usando strumenti online. Spesso è addirittura l’ennesimo passaggio della costruzione di una catena di valore ancora più lunga, che magari porta all’agganciare realtà mainstream, o comunque a guadagnare una visibilità ulteriore, premessa per altri sviluppi professionali ed economici.
In ogni caso, il crowdfunding è utile a capire come “parlare” di cultura in modo che il pubblico possa comprendere il valore di quanto si chiede di finanziare. Quando il crowdfunding “riesce”, raggiungendo l’obiettivo economico, è il simbolo che tra autore della campagna e utenti digitali si è effettivamente stabilita la relazione adeguata, con il pubblico che risponde in maniera tangibile a una sollecitazione sul valore che riconoscono alla proposta. E quindi, in pochissime parole, “paga”, e lo fa volentieri.
Parlando di questo dialogo, il caso di Patreon suggerisce un cambiamento che potrebbe essere profondo. Non è una questione di singola campagna che raggiunge il successo, ma di una piattaforma che cresce in maniera netta e incontestabile in un lasso di tempo assai breve. È forse l’emersione di un modello differente, nel quale sembrano riconoscibili dei fattori differenziali che la crisi pandemica ha portato probabilmente in evidenza in maniera più netta.
Primo fattore: l’evoluzione del linguaggio digitale dell’offerta creativa
YouTubers, Illustrators, Podcasters, Writers, Musicians, Livestreamers, Communities & Education, Businesses & Organizations, Modeling & Cosplay: è la tassonomia delle categorie di progetti e professionalità creative scelte dalla piattaforma per accogliere e catalogare artisti e produzioni in maniera utile e gradita al pubblico. Non è una classificazione omogenea, o basata su criteri “puri” o con qualche pretesa di scientificità, e neppure risponde a una logica meramente funzionale. Ci sono riferimenti misti ai canali, alla modalità della performance, anche alla forma dei soggetti che propongono qualcosa (“Communities”, “Business & Organizations”), e finanche un ampio quanto indefinito “Educazione” (solo la voce “Cosplay” meriterebbe un libro a parte, più che un articolo dedicato).
È un linguaggio spurio, impreciso, a-tecnico, che fotografa in maniera fedele la capacità e la propensione percettiva dell’utente quando si trova ad affrontare l’interazione digitale. La prima esigenza non è quella della coerenza sistemica delle informazioni, quanto quella della loro efficacia icastica e descrittiva. Inutile sottolineare come in questo caso alcuni dei termini possano sovrapporsi senza escludersi o “coprirsi” l’un l’altro, come nel caso di “Youtubers” e “Livestreamers”. Si tratta in ogni caso di performance video sul digitale, senza ulteriori specificazioni. Soprattutto, è un linguaggio che il pubblico riconosce senza problemi, ponendosi mentalmente al di fuori dei recinti concettuali che descrivono tradizionalmente l’offerta culturale e creativa. Rendendoli più liberi, e quindi più ricettivi? Azzarderei di sì, personalmente.
Quando si affronta la questione del digitale si parla molto di “crowdsourcing”, la collaborazione creativa collettiva della community che coopera spontaneamente per dare una forma alle “cose”, siano esse attività, dinamiche, meccanismi e quant’altro faccia funzionare l’interazione. Lo spirito della cosa sta nel riconoscere – in maniera assai concreta e fattuale – uno spazio di manovra propositiva e creativa agli utenti, ed è quanto è accaduto nel caso di Patreon, che ha recepito e sviluppato un’offerta codificata in maniera assai empirica e molto poco teorica, raccogliendo nel tempo la propensione e la tensione del pubblico, distillandone una semantica del tutto atipica, ma funzionale.
Quello che potrebbe essere classificato come semplice gap linguistico, da stigmatizzare o meno, a seconda della visione personale, diventa quindi un motivo di auspicabile riflessione, volendo trasporre il senso del prodotto culturale e creativo in maniera efficiente in ambito digitale.
Il “crollo” di Kickstarter e del crowdfunding
Quanto accaduto con Patreon non è però esauriente se non rapportato a quanto avvenuto nel medesimo periodo nel mondo del crowdfunding. Al di là del boom settoriale delle campagne dedicate al finanziamento degli ospedali che affrontavano la pandemia, con oltre 700 milioni di euro raccolti in totale nel mondo (la cifra si riferisce alle campagne “ufficiali”), la pratica del micromecenatismo digitale è andata totalmente in crisi. Tutti gli operatori europei hanno dichiarato la propria sofferenza per il calo delle attività proposte sulle varie piattaforme, come fotografato dall’indagine condotta da Eurocrowds.
Volendo rapportare il discorso nel modo più deciso al settore culturale e creativo, parliamo di Kickstarter, “la” piattaforma globale, quella che più di ogni altra ha macinato numeri impressionanti, offrendo spazio a produzioni creative e corda all’immaginario di chiunque avesse un progetto o anche solo un’intuizione da condividere col mondo e un comodo riferimento positivo per i media a caccia di buone nuove sulle possibilità di quella che viene definita “finanza alternativa”. Mentre Patreon in piena emergenza coronavirus “sfondava”, raggiungendo i numeri riportati, la piattaforma regina del crowdfunding – soprattutto quello a tema creativo, culturale e legato ai prodotti dell’innovazione – dichiarava la propria crisi.
A fine aprile, il CEO della società Aziz Hasan annunciava un calo del 35% dei progetti presentati dagli utenti – che naturalmente sono la benzina della piattaforma – dichiarando anche di non scorgere all’orizzonte segnali di ripresa. I 140 licenziamenti paventati a corollario erano un duro colpo alla mistica da startup dei sogni che si era consolidata attorno alla società, ma anche in questo caso un dato apparentemente incoerente con il primo fornisce argomenti di riflessione interessanti.
Secondo fattore: il rilievo dell’identità
Patreon si “riempie” mentre Kickstarter si “svuota”, nello stesso periodo di crisi globale: com’è possibile?
Una delle risposte possibili sta nel fatto che Kickstarter sia ormai considerato una sorta di marketplace, un luogo dove trovare articoli e prodotti culturali “cool” (il catalogo è diviso in arti, fumetti e illustrazioni, design e tecnologia, giochi, musica e così via), rispondendo ad una logica meramente commerciale. Anche se nelle linee guida il sito dichiara esplicitamente di non essere un negozio (innanzitutto per motivi legali e fiscali), e che gli articoli promossi (e promessi) dai progetti non sono in vendita, nella realtà del quotidiano gli utenti visitavano – e visitano – la vetrina digitale del sito per vedere quali novità in anteprima si possano trovare, facendo di fatto shopping. Una dinamica che è andata in crisi nel momento storico in cui il “commercio” tout court è andato in crisi, con il lockdown che ha favorito sì i consumi digitali, ma probabilmente in una nuova ottica, più orientata al sostegno di qualcosa (e qualcuno) che fosse più eminentemente ed evidentemente “riconoscibile” come portatore di un valore diverso, che come puro frutto della catena di consumo.
Patreon dichiara in maniera più esplicita la sua funzione di strumento a supporto della “persona” del creativo, dell’artista e della sua attività. Il focus non è sul prodotto finale, quanto su chi lavora per produrre e offrire l’oggetto, la performance, il servizio. Un meccanismo probabilmente anche facilitato e reso più incisivo dalla peculiare condizione del lockdown, una situazione oggettivamente straniante che ha indotto probabilmente una maggiore riconoscibilità dell’impulso alla relazione piuttosto che al consumo puro e semplice.
Un nuovo modello?
Se nello sbocco finale l’obiettivo rimane il medesimo per tutte le tipologie di crowdfunding – proporre al pubblico produzioni artistiche e creative – è forse nel processo (il linguaggio e il percorso della proposta) che si intravede una differenza sottile ma sostanziale, che insiste sulla sempre maggiore rilevanza dell’elemento personale, e quindi sull’identità come tratto caratterizzante per affermare la bontà e il valore della propria presenza nel mare magnum del web.
Ebbene, a fronte di una situazione del genere, l’esplosione di Patreon sembra suggerire la possibile emersione di una strada nuova, diversa, meno legata alla dinamica commerciale e più a quella personale e definita della figura del creativo, che acquista rilievo in un senso ancora ulteriore rispetto all’altra figura totemica del digitale, “l’influencer”, anch’esso in declino dichiarato nel momento della crisi.
È quindi più attuale che mai concentrarsi sul senso della proposta legata all’identità del professionista del settore culturale e creativo, ponendosi le domande giuste per contribuire a definire il paradigma di una relazione rinnovata e generativa col pubblico.
Claudio Calveri, Digital Strategist di DeRev, per AgCult